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Vinicio Coletti presenta

Don Chisciotte della Mancia

El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha

Romanzo - Miguel de Cervantes Saavedra - Spagna - 1605


Chi non conosce, almeno per sommi capi, la storia di Don Chisciotte e del suo fido scudiero Sancio? Quest'opera in due volumi è in effetti una delle più note della letteratura di tutti i tempi ed è considerata il primo vero romanzo moderno. Naturalmente, nella maggior parte dei casi la conoscenza dell'opera si limiterà agli episodi più noti, come la battaglia contro i mulini a vento, mentre credo che molte meno persone abbiano affrontato la sua lettura integrale.
In ogni caso, vista l'imponente mole di lavoro della critica letteraria negli ultimi quattro secoli, mi guardo bene dal considerare queste mie poche righe come una critica o una recensione del Don Chisciotte. Mi limiterò pertanto a sottolineare alcuni aspetti che mi hanno incuriosito e divertito.
L'occasione di leggerlo è venuta il giorno in cui ho acquistato un lettore di e-book ed ho scaricato da internet, gratis, una versione libera da diritti d'autore, una traduzione ottocentesca in lingua italiana. Questo italiano un po' antico ha reso ancora più divertente la lettura del romanzo, ogni giorno in metropolitana.
Iniziamo però con qualche utile notizia storica sul Don Chisciotte. Il suo autore, Miguel de Cervantes Saavedra, apparteneva ad un'umile famiglia della zona di Madrid ed ebbe una vita a dir poco avventurosa. Nacque ad Alcalà de Henares nel 1547, si spostò insieme alla famiglia in varie città e studiò poi a Madrid, da dove fu costretto a fuggire per aver ferito una persona.
Rifugiatosi in Italia, frequentò varie corti e si arruolò nella flotta che affrontò gli Ottomani nella vittoriosa battaglia di Lepanto, dove fu ferito e perse l'uso della mano sinistra. Fu proprio dopo questa battaglia, durante la convalescenza in Sicilia, che gli venne in mente di scrivere il Don Chisciotte.
Durante il viaggio di ritorno verso la Spagna, la nave fu assalita dai pirati e fu loro prigioniero ad Algeri per cinque anni, fino al pagamento di un riscatto da parte della sua famiglia. Tornato in patria, si sposò e si stabilì vicino Toledo, anche se si separò poco dopo da sua moglie e si spostò in Andalusia. Qui si occupò di contabilità e finì brevemente in prigione per quella che oggi chiameremmo finanza creativa.
Nell'anno di pubblicazione del primo volume del Don Chisciotte, Cervantes viveva a Valladolid, insieme a due sorelle ed una figlia illegittima. Anche qui non mancarono i guai: fu accusato di aver ucciso un cavaliere, ma fu assolto. Si spostò infine a Madrid alla corte di Filippo III, dove morì nel 1616.
L'avvicinamento alla letteratura avvenne probabilmente durante la cattività algerina, quando conobbe il poeta Antonio Veneziano, di cui diventò amico ed ammiratore. Ed è proprio nella poesia che iniziò a cimentarsi, fino alla sua opera giovanile più compiuta, La Galatea, pubblicata nel 1585.
Il Don Chisciotte fu terminato e pubblicato nel 1605, quando l'autore aveva 57 anni, dopo anni di paziente stesura e con il titolo "El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha". La prefazione del libro dichiara ironicamente che le storie raccontate furono scritte da Side Hamete Benengeli, un morisco (spagnolo di origine araba). Il libro ebbe subito un grande successo anche se ciò, vista l'epoca, non si tradusse in un aumento delle ricchezze di Cervantes, tanto che egli visse quasi in indigenza fino alla fine dei suoi giorni.
La storia ha come protagonista un possidente delle campagne a sud di Madrid, la Mancha, uno di quelli che "tengono lance nella rastrelliera, targhe antiche, magro ronzino e cane da caccia". Avendo poco da fare, si dedica alla lettura di libri che parlano di cavalieri senza paura, damigelle insidiate, vedove da proteggere e mostri orribili da sconfiggere. Leggi oggi e leggi domani, finisce per convincersi di essere lui stesso un cavaliere, con una missione da compiere.
In sostanza il signor Chisciana (Quijana) impazzisce, vede se stesso come il gran cavaliere Don Chisciotte (don Quijote) ed inizia a trasfigurare completamente la realtà che lo circonda. Il suo cavallo magrissimo diventa il destriero Ronzinante, mentre un contadino del suo paese, Sancio Pancia (Sancho Panza), viene promosso a scudiero, destinato ad accompagnarlo in tutte le sue avventure. Partito alla ventura, continua naturalmente a far vincere sulla realtà la sua interpretazione soggettiva, per cui le locande in cui arriva sono castelli e gli osti sono i nobili che lo ospitano, i mulini a vento sono grandi giganti da combattere, il vassoio per la barba è un prezioso elmo da indossare, dei carcerati per furto sono dei prigionieri da liberare, e così via a piacimento.
La follia di Don Chisciotte è così ingegnosa, come recita il titolo, che non c'è situazione che egli non riesca a reinterpretare a modo suo, per quanto la realtà possa essere evidente. A ciò si contrappongono i ragionamenti razionali di Sancio, il quale, pur essendo ignorante, si basa sul senso comune della gente di campagna e vede la realtà per quello che è: locande e non castelli, osti e non principi, vassoi e non elmi, mulini e non mostri giganti. Questo contrasto, tra il sedicente nobile e colto cavaliere ed il suo scudiero ignorante ma razionale, è sicuramente uno dei più riusciti nella storia della letteratura e costituisce la chiave di volta per comprendere il significato dell'opera.
Nel 1605 la Spagna era al culmine di uno dei suoi periodi migliori, el Siglo de Oro delle sue scoperte geografiche, delle immense ricchezze che ne erano derivate e dell'imperatore Carlo V. Sicuramente c'erano molti arricchiti in giro, che magari per darsi un contegno pretendevano di avere dei quarti di nobiltà e si atteggiavano a cavalieri, con conseguente disprezzo della gente comune. Chissà, forse possiamo leggere il Don Chisciotte anche come una satira di questi personaggi, da sempre presi a bersaglio dagli autori comici, ed anche naturalmente come la dichiarazione ufficiale di morte del racconto epico. E comunque, se di solito erano i ricchi e nobili ad apparire saggi, mentre la pazzia derivava dalla povertà e dalla disperazione, qui abbiamo una simpatica inversione: è il possidente che è pazzo e crede di essere un nobile cavaliere, mentre il povero contadino ragiona benissimo e mostra una saggezza ammirevole.
Naturalmente anche Sancio ha i suoi limiti: non avendo studiato, ignora molte cose ed in alcuni casi finisce per fidarsi di Don Chisciotte, pensando che egli debba per forza saperne di più. Così ad esempio, accetta di buon grado la promessa di essere nominato un giorno governatore di un'isola, speranza che gli darà la forza di continuare a sopportare le stramberie del suo padrone. D'altra parte, in tanta logorrea, il prode cavaliere non dice solo cose folli, ma spesso azzecca anche lui delle forse involontarie perle di saggezza.
Visto poi che ogni cavaliere ha la sua dama, Don Chisciotte vede una contadina della sua provincia, brutta, grassa, sporca, stupida e maleducata e la immagina (ovviamente) bella, attraente, linda, intelligente ed educata. Sarà dunque a lei, a Dulcinea del Toboso, che il cavaliere dedicherà ogni sua impresa.
Ci sono molti aspetti che rendono davvero moderno questo romanzo, in alcuni casi addirittura preveggente. Tanto per cominciare c'è il potere dei libri. Se Don Chisciotte impazzisce è perché ha letto troppi libri di cavalleria, ne è diventato dipendente. Può sembrare esagerato, ma non lo è, se si pensa ai giovani che si suicidarono nel XIX secolo dopo aver letto libri di autori romantici, o a chi lesse qualche romanzo della beat generation ed iniziò ad andarsene in giro conciato come un figlio dei fiori, o a chi inizò ad usare droghe dopo aver letto certe opere. Gli esempi non mancano e, in tempi più moderni, giornali, radio, cinema e televisione hanno ereditato il terribile potere seduttivo della letteratura: il gossip, spesso inventato di sana pianta, gli editoriali (anche questi, a volte), i marziani di Orson Welles, i divi di Hollywood, i rocchettari in spleen, per finire con i talent show ed i reality televisivi, dove chi ha passato la vita davanti allo schermo finisce con l'esserne fagocitato, con il credere, da novello Don Chisciotte, di poter essere anche lui un cantante, un ballerino, un attore, di poter diventare famoso almeno per un momento (i personaggi celebri sono i nobili della nostra epoca). E comunque non c'è dubbio: l'arte è mimetica (oh yeah).
Il pragmatismo di Sancio, che oggi diremmo anglosassone, è invece quasi una critica preventiva all'idealismo dei secoli che seguiranno. In fondo ogni ideologia trasfigura la realtà e cerca di vederla attraverso le sue lenti deformanti, privilegiando le impostazioni a priori rispetto all'osservazione dei fatti e ogni ideologizzato è un piccolo Don Chisciotte che pensa che il mondo debba seguire la sua mente. L'antidoto a questa follia (molto diffusa tra XIX e XX secolo) sta proprio nel pragmatismo di Sancio Panza, che ricorda in qualche modo il modo di operare della scienza. Insomma, il romanzo è più vicino a Kant che ad Hegel, i quali nasceranno oltre un secolo dopo (chiedo scusa agli esperti di filosofia...).
D'altra parte la sola razionalità non basta, non scalda il cuore, appiattisce sui fatti l'animo umano, fatto anche per sognare e per elevarsi al di sopra di una realtà spesso dura da accettare. Ecco quindi che nella follia del protagonista si nascondono come gemme anche la voglia di sognare, di aiutare gli altri, di amare ed essere amati. La sua è una follia in fondo buona, piena di amore sincero verso il prossimo e il dualismo cavaliere-scudiero funziona perché è lo stesso che è presente in ognuno di noi: concretezza ed elevazione, sogno e realtà, desiderio ed accettazione.
Per altri versi, potremmo persino leggere questo romanzo come il primo fumetto della storia, o forse addirittura come il primo cartone animato. Come scrissero alcuni critici dell'epoca, Don Chisciotte viene percosso, bastonato, preso a calci, trafitto, cade da cavallo, e poi ogni volta continua quasi come se niente fosse, neanche avessimo a che fare con Vilcoyote che cade in un burrone (e subito si rialza). Naturalmente i critici dell'epoca non avevano capito nulla: Don Chisciotte è una specie di supereroe e la coerenza fisica poco importa. Sarebbe come criticare Siegel e Shuster per il fatto che Superman non si frattura mai una costola. Ma ora sappiamo che questo è anche un cartoon.
Un altro aspetto del libro è dato dalla sua nidificazione: in molti capitoli un personaggio incontrato per caso dai nostri eroi inizia a raccontare una storia ed il racconto è così lungo e articolato che costituisce un piccolo romanzo nel romanzo. Alcune di queste storie sono commoventi, altre tragiche, altre ancora comiche, con un'alternanza di registri che contribuisce non poco al valore complessivo dell'opera.
Ad esempio in uno dei sottoromanzi un giovane incarica un suo caro amico di corteggiare sua moglie, per verificare se ella sa essergli fedele (non viene già da ridere?), mentre un altro racconta di una lunga prigionia nel Maghreb, probabilmente una versione romanzata dell'episodio capitato allo stesso Cervantes, come abbiamo visto.
Le varie storie si intersecano a volte tra di loro e personaggi che si erano persi di vista si incontrano di nuovo, di solito in un'osteria lungo il cammino. Le mitiche osterie del Don Chisciotte, dove tutti si ritrovano! Quando sono stato a Siviglia ed ho casualmente incontrato dove mangiavo tapas le stesse persone incontrate il giorno prima a Huelva e due turiste americane conosciute nella Giralda, il mio primo pensiero è stato: "sembra di essere in un'osteria del Don Chisciotte!".
Insomma, i frequenti dialoghi tra il pazzo ed il pragmatico, i racconti, i viaggi, gli stralunati personaggi che si incontrano, rendono il romanzo quanto mai vario e divertente, con un'alternanza di toni che copre tutto l'arco delle emozioni umane.
Va anche detto che, tanto per non smentire il fatto di essere il primo romanzo moderno, esso fu seguito da tre secondi volumi apocrifi, uno scritto da Alonso Fernández de Avellaneda e gli altri due di autore francese. Cervantes si mise così di nuovo all'opera e pubblicò nel 1615 il secondo volume del romanzo, intitolandolo questa volta "El ingenioso caballero don Quijote de la Mancha".
La cosa forse più interessante della seconda parte è che Cervantes, sia nella prefazione che nel racconto, si rivolge direttamente al lettore, dimostrandosi consapevole sia delle versioni apocrife che delle critiche che il primo volume aveva incontrato, diventando un caso da manuale di letteratura nella letteratura e di romanzo autoriflessivo, dove la storia si mescola alla metastoria. In questo ricorda un po', tanto per dire, "Se una notte d'inverno un viaggiatore" di Italo Calvino (che nascerà tre secoli dopo...). Ad esempio in un capitolo il nostro eroe incontra dei nobili che hanno letto la prima parte del romanzo e vogliono conoscerne il protagonista. Bello, vero?
Cervantes ne approfitta anche per trasformare in realtà alcune facezie del primo volume: Sancio diventa ad esempio un vero governatore di una vera isola, anche se per burla. E il bello è che, almeno per un po', si rivela un ottimo governatore, sagace e moderato quanto basta. Anzi, tanto saggio da capire infine che il potere non è una cosa che fa per lui.
Dopo mille altre avventure Don Chisciotte viene sconfitto in duello con l'inganno e riportato a casa, dove si ammala e capisce che sta per morire. Solo sul letto di morte ritrova il senno perduto leggendo troppi libri di cavalleria e muore serenamente, ringraziando il cielo di essere tornato sano. Sansone Carrasco, lo studente dell'università di Salamanca che è riuscito a riportarlo a casa, compone per lui un epitaffio:
Giace qui l'hidalgo forte
che i più forti superò,
e che pure nella morte
la sua vita trionfò.
Fu del mondo, ad ogni tratto,
lo spavento e la paura;
fu per lui la gran ventura
morir savio e viver matto.

Alcuni brani:
 
Sfaccendato lettore, potrai credermi senza che te ne faccia giuramento, ch'io vorrei che questo mio libro, come figlio del mio intelletto, fosse il più bello, il più galante ed il più ragionevole che si potesse mai immaginare; ma non mi fu dato alterare l'ordine della natura secondo la quale ogni cosa produce cose simili a sé. Che poteva mai generare lo sterile ed incolto mio ingegno, se non se la storia d'un figlio secco, grossolano, fantastico e pieno di pensieri varii fra loro, né da verun altro immaginati finora?
 
Viveva, non ha molto, in una terra della Mancia, che non voglio ricordare come si chiami, un idalgo di quelli che tengono lance nella rastrelliera, targhe antiche, magro ronzino e cane da caccia. [...]
Toccava l'età di cinquant'anni; forte di complessione, adusto, asciutto di viso; alzavasi di buon mattino, ed era amico della caccia. Vogliono alcuni che portasse il soprannome di Chisciada o Chesada, nel che discordano gli autori che trattarono delle sue imprese; ma per verosimili congetture si può presupporre che fosse denominato Chisciana; [...]
Importa bensì di sapere che negli intervalli di tempo nei quali era ozioso (ch'erano il più dell'anno), applicavasi alla lettura dei libri di cavalleria con predilezione sì dichiarata e sì grande compiacenza che obbliò quasi intieramente l'esercizio della caccia ed anche il governo delle domestiche cose: anzi la curiosità sua, giunta alla mania d'erudirsi compiutamente in tale istituzione, lo indusse a spropriarsi di non pochi dei suoi poderi a fine di comperare e di leggere libri di cavalleria.
 
Siccome tutto ciò che pensava o vedeva il nostro avventuriere, tutto dentro di lui pigliava forma e sembianza della pazzia che le sue letture gli avevano fitta in capo; così appena scorse l'osteria, gli fu d'avviso di vedere un castello colle sue quattro torri, con capitelli di lucido argento, con ponte levatoio sovrastante a profondo fosso, e fornito di tutte quelle altre appartenenze che sogliono essere attribuite a siffatte abitazioni.
 
Mentre che don Chisciotte dormiva, il curato domandò alla nipote le chiavi della stanza dove trovavansi i libri, cagione di tanti malanni; ed essa gliela diede di buona voglia. Quindi entrarono tutti e con essi anche la serva; e trovarono da più di cento volumi grandi assai, ben legati, ed altri di picciola mole. [...] La semplicità della serva mosse a riso il curato; ed ordinò al barbiere che glieli venisse porgendo uno alla volta per conoscere di che trattassero, potendo essere che qualche opera non meritasse la pena del fuoco. [...] Il primo pertanto che maestro Nicolò gli porse fu quello dei Quattro libri d'Amadigi di Gaula. [...] Laonde mi pare che come capo di mala setta si debba dare alle fiamme senza veruna remissione. — Signor no, soggiunse il barbiere, ché mi fu detto che questo è il migliore di quanti di simil fatta furono composti; e perciò, come unico nella sua specie, può meritare perdono.
 
Ed ecco intanto scoprirsi da trenta o quaranta mulini a vento, che si trovavano in quella campagna; e tosto che don Chisciotte li vide, disse al suo scudiere: "La fortuna va guidando le cose nostre meglio che noi non oseremmo desiderare. Vedi là, amico Sancio, come si vengono manifestando trenta, o poco più smisurati giganti? Io penso di azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle loro spoglie; perciocché questa è guerra onorata, ed è un servire Iddio il togliere dalla faccia della terra sì trista semente.
- Dove sono i giganti? disse Sancio Pancia.
- Quelli che vedi laggiù, rispose il padrone, con quelle braccia sì lunghe, che taluno d'essi le ha come di due leghe.
- Guardi bene la signoria vostra, soggiunse Sancio, che quelli che solà si discoprono non sono altrimenti giganti, ma mulini da vento, e quelle che le paiono braccia sono le pale delle ruote, che percosse dal vento, fanno girare la macchina del mulino.
- Ben si conosce, disse don Chisciotte, che non sei pratico di avventure; quelli sono giganti, e se ne temi, fatti in disparte e mettiti in orazione mentre io vado ad entrar con essi in fiera e disegual tenzone."
 
- Ho qua una cipolla, un po' di formaggio e qualche tozzo di pane, disse Sancio; ma questi non sono cibi adattati a sì valoroso cavaliere com'è vossignoria.
- T'inganni a partito, rispose don Chisciotte sappi che i cavalieri erranti si recano ad onore di non mangiar mai in un mese, e quando mangiano pigliano tutto ciò che vien loro offerto; della qual cosa tu saresti bene assicurato se avessi lette tante storie quante ne lessi io.
 
A questo punto don Chisciotte mandò un profondo sospiro e disse: "Io non posso affermare se alla mia dolce nemica piaccia o no che si sappia dal mondo ch'ella è da me servita; so dir solamente, rispondendo a quello di cui tanto caldamente sono richiesto, che il suo nome è Dulcinea, la sua patria è il Toboso, villaggio della Mancia, e la sua condizione debb'esser per lo meno quella d'una principessa, essendo signora e regina mia; sovrumana poi è la sua bellezza, giacché sono veri e reali in lei tutti gl'impossibili e chimerici attributi della perfezione che i poeti attribuiscono alle loro amanti; e sono oro i capelli, è un eliso la fronte, archibaleni le ciglia, due soli gli occhi, rose le guancie, coralli i labbri, perle i denti, alabastro il collo, avorio le mani, neve la bianchezza..."
 
E qua come suol dirsi, il gatto al topo, il topo al gatto, ed il gatto alla corda, e la corda al palo: il vetturale bastonava Sancio, Sancio la serva, la serva lui, l'oste la serva, e tutti menavano così alla presta che non restava un momento di pausa. Fu poi da ridere che all'oste si spense il lume, e rimasti perciò tutti all'oscuro, si percuotevano sì pazzamente e alla cieca, che dove giungevan le mani non restava niente di sano.
 
— Se a sorte volessero sapere quei signori chi è stato il valoroso che li ha conci a quel modo, dirà vossignoria ch'è stato il famoso don Chisciotte della Mancia, il quale con altro nome si chiama il Cavaliere della Trista Figura.
 
— Questo è naturale istinto nelle donne, disse don Chisciotte, sprezzar chi le ama, e amar chi le odia; ma tira pure innanzi, o Sancio.
 
Resta ora a cercare qual re dei cristiani o dei pagani sia in guerra ed abbia una figlia vezzosa; ma tempo verrà da applicarsi anche a questo, poiché, come dissi, è necessario che l'acquistarsi fama sia prima del comparire alla Corte. Un'altra cosa pure mi manca, ed è che dato il caso che il re si trovi in guerra, ed abbia una bella figliuola, e ch'io m'abbia acquistata una incredibile fama per tutto l'universo, non so come potrei provare di essere di stirpe reale, o almeno cugino germano di imperadore.
 
— È proprio di persone ben nate mostrarsi riconoscenti de' benefizî ricevuti e l'ingratitudine è una delle cose più abborrite in faccia al cielo. Ciò dico perché già vedeste, signori, col fatto quanto avete da me ottenuto, ed ora in compenso desidero, anzi è mio volere che pigliando questa catena che vi ho tolta dal collo, ve ne andiate incontanente alla città del Toboso, ed ivi presentandovi dinanzi alla signora Dulcinea del Toboso, le facciate sapere che il suo cavaliere, quello della Trista Figura, v'invia, e se le raccomanda;
 
A Firenze, città celebre e ricca d'Italia nella provincia di Toscana, vivevano Anselmo e Lotario, due cavalieri ricchi e di nobile stirpe, tanto amici fra loro che quanti li conoscevano li chiamavano per eccellenza ed antonomasia i due amici. [...] Era Anselmo perdutamente invaghito di una donzella bellissima, che deliberò col parere di Lotario, senza cui a nulla determinato sarebbesi, di chiederla in isposa a' suoi genitori siccome fece. [...] Andò Anselmo il dì seguente alla campagna, lasciando detto a Camilla che Lotario verrebbe ogni giorno a pranzare con lei durante la sua lontananza, e che lo tenesse in conto della sua persona medesima. [...] Accadde pertanto che la piena fiducia che riponeva Anselmo nella bontà di Camilla, lo faceva vivere una vita contenta e senza pensieri, mentr'ella per dar colore all'inganno facea mal viso a Lotario, acciocché Anselmo credesse il contrario dell'amore che gli portava: e perché la finzione avesse sempre più apparenza di verità, facea Lotario scorgere la sua ripugnanza di recarsi a lei perché le sue visite non erano gradite: ma il tradito Anselmo tenevasi molto raccomandato affinché questa cosa non succedesse; ed in tal guisa era egli stesso il fabbro del suo disonore quando credeva di avere assicurata la propria felicità.
 
"Il mio nome è Cardenio, la mia patria una città delle migliori dell'Andalusia, nobile il mio lignaggio, doviziosi i miei genitori, sì grande la mia disavventura, che debbono averne pianto e i genitori e i parenti senza poterne temprerare l'amarezza colle loro molte ricchezze; poiché valgono assai poco i favori della fortuna per tener fronte alle sciagure che Dio ci manda.
Nella detta provincia trovavasi un cielo in cui amore posta avea tutta tutta la gloria ch'io avessi potuto desiderare: tale si era la bellezza di Lucinda, donzella pari a me nella nobiltà e nelle ricchezze, ma però di me più avventurata, e meno costante di quello che si conveniva alle mie onorate intenzioni. Ho amato questa Lucinda, la ho desiderata ed adorata sino dai miei teneri anni, e fui da lei corrisposto con quella semplicità e con quel buon cuore ch'erano proprî dell'età sua.
 


18 maggio 2015